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JFK
(JFK)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 febbraio 1992
 
di Oliver Stone, con Kevin Costner, Sissy Spacek, Joe Pesci, Donald Sutherland, Jack Lemmon, Walter Matthau (Stati Uniti, 1991)
 
Oliver Stone, il regista di questo discusso e frequentatissimo film-ipotesi sull'assassinio del presidente Kennedy, è una specie di dinosauro in via di disparizione.

Dinosauro perché, per le sue tesi e per la sua posizione da sempre nei confronti della guerra del Vietnam, può essere considerato uno dei non molti cineasti americani di sinistra. Dinosauro poiché cineasta naturalista di un ambiente, di una situazione, di una messa in situazione " fisica " (come in quell'attesa nella giungla di PLATOON, dove la paura fisica si fa inquietudine, disagio e condanna morale): più che di un individuo, di una psicologia. E dinosauro, infine, per la possanza, la forza, talora l'invadenza del proprio stile; l'idealismo alla Frank Capra (la scelta di Kevin Costner dallo sguardo limpido, l'ultimo dei Gary Cooper o Jimmy Stewart che ha appena finito di ballare con in lupi alla Frontiera) unito al dimostrativismo alla Costa-Gavras: ora vi spiego come sono andate le cose.

Perché allora gli Americani rifiutano violentemente JFK, sulle cui tesi (Oswald non poteva certamente aver sparato da solo; e se era in compagnia di altri, allora c'era stato per forza un complotto) sono per lo più d'accordo? Per due ragioni abbastanza ovvie: la prima è che detestano, più di altri popoli, veder messi in dubbio i propri miti e le proprie istituzioni. La seconda è che il procedimento registico di Stone fa di tutto per alimentare questa reazione.

Con la sua tipica (e più che abile) irruenza Stone entra nel fattaccio di Dallas come il famoso pachiderma nel negozio di porcellane. Sposa appieno le teorie di quel procuratore Garrison che fu il primo a dubitare di una verità prefabbricata e zoppicante in un'infinità scandalosa di dettagli. E ce ne aggiunge di quel suo che lo ha sempre distinto da SALVADOR a PLATOON, da NATO IL 4 LUGLIO a WALL STREET: sono i soldi a reggere il mondo, e sono le guerre a reggere i soldi. Quando l'ultimo cavaliere idealista del Sogno Americano, John Fitzgerald Kennedy, si mise in mente di ritirarsi dall'affare rappresentato dal Vietnam per la lobby bellico-industriale ( ed un po' per tutti, tranne coloro che ci vivevano, od erano destinati ad andarci), quando meditò di ridurre i budget militari e di pre-pensionare i servizi segreti, si mise contro tutti: dall'FBI alla CIA, dalla Mafia agli anticastristi, dagli estremisti di destra al Pentagono. Per finire al suo successore Lyndon Johnson, che Stone accusa esplicitamente di complicità passiva al complotto di Dallas.

Ma non è tanto il " cosa " dice Stone nel film a dar fastidio agli Americani, quanto il "come": ed a questo punto, finalmente, si tratta di cinema. Quasi 30 anni sono trascorsi dalle 12.30 di quel 22 novembre del 1963: oggi non esistono i documenti originali, che rimangono inavvicinabili negli archivi (la legge americana prevede 30 anni; un decreto straordinario di Johnson ne prescrisse 60 per quelli riguardanti l'affare Kennedy...). Quasi tutti gli attori ed i testimoni del dramma sono scomparsi, più o meno drammaticamente e misteriosamente. I grandi del potere (la CIA, l'FBI, i politici di spicco) si guardano bene dal parlare. Non rimangono allora che due possibilità: o tacere, dimenticare, con i rischi che sappiamo. Oppure far giostrare l'immaginazione, riflettere. Unire a quello che si sa, ciò che si può supporre: è quello che fa - in immagini - Oliver Stone. Ed è ciò che disturba.

In JFK tutto si fonde, tutto quanto può usare il cineasta. I documenti autentici - a cominciare dal famoso film in superotto ripreso casualmente dal cineamatore Zapruder - le interviste, le foto, il giuramento di Lyndon Johnson. Alle scene ricostruite (fra le quali la più drammatica, ma anche una delle più riuscite, è quella dell'autopsia sul corpo di Kennedy) Stone mescola il vero con il falso. O, meglio, ricostruisce il falso per accostarlo al vero. Per tentare un discorso (cinematografico, ideologico, politico) compiuto.

Ciò può a prima vista sembrare disonesto. Poiché abbiamo l'abitudine di considerare l'immagine come vera, inoppugnabile. Ma il cinema ha non solo il diritto, ma il dovere d'intervenire sull'immagine, di piegarla ai propri voleri, anche di manipolarla. Ed in questo caso è l'unico modo per tentare di comprendere ciò che è successo, per ricostruire i pezzi mancanti del mosaico. JFK è un film a tratti assordante e debordante, banale (le scene private) ed avvincente (come un thriller, un po' troppo lungo). Ma è un film riuscito, malgrado i suoi limiti: proprio perché ha il coraggio di fingere, di essere una fiction. Di non voler contrabbandarsi per un documentario. Di non voler inseguire una verità che allo stato attuale delle cose è impossibile da stabilire. Ma di proporre, con il virtuosismo espressivo ed ingenuo tipico del personaggio, un'ipotesi: che nei suoi momenti migliori si muta, con gli accenti di una tragedia shakespeariani, in una riflessione sulla crisi dell'America e del suo Sogno.

Perché offuscarsi se il cinema vuol dire la sua? Dopo tutto, più di seicento libri sono stati scritti dal quel mese di novembre sul fattaccio di Dallas.


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